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Commento al Vangelo di Marco (Mc 2,2 – 10)

(Mc 2,2 10)

Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti. 

La vita di Gesù mi appare caratterizzata da relazioni che quasi naturalmente si dispongono su cerchi concentrici.

Alla cerchia più esterna vedrei la relazione di Gesù con gli stranieri che lui incontra lungo la sua predicazione. Qui abbiamo belle storie di incontro vero con Gesù e quindi di conversione ed anche popolazioni che si direbbe quasi educatamente invitano Gesù a lasciare il loro territorio per non essere coinvolti dal suo messaggio di profondo rinnovamento di vita. Tutto però, accoglienza e non accoglienza, sembra dispiegarsi in un contesto di sostanziale serenità.

Nella cerchia immediatamente più interna, ossia quella della relazione con il popolo di Israele, i toni emotivi si fanno imponentemente più forti. Folle di discepoli inseguono Gesù ed arrivano addirittura a prevedere i suoi spostamenti, per il pane che moltiplica, i malati che cura e perché mai nessuno ha parlato con tale autorità. Dall’altro lato abbiamo la classe dirigente che lo osteggia, lo sente estraneo e trama contro di lui senza alcuna possibile mediazione e quindi fino a farlo morire.

Andando ancora più all’interno, sarà Gesù stesso ad istituire la dolcissima cerchia ristretta dei dodici apostoli, dodici uomini diversissimi tra di loro, almeno apparentemente assolutamente ordinari, che ricevono il più grande talento della storia, dolcezza e fatica, dono e responsabilità senza fine, perché per lunghi giorni cammineranno al fianco di Dio, con lui parleranno nell’intimità, mangeranno e dormiranno. Quale anima un minimo cosciente di sé non desidera ardentemente questo camminare la vita avendo al fianco un Dio non solo visibile ma concretissimo?

Eppure, ed è veramente difficile a credere, anche in questa cerchia sublime di una adorazione inconsapevole, una esposizione spesso inconsapevole alla presenza di Dio, ci sarà una persona capace di vedere un bene per sé nel tradire e mettere fine a tutto questo. E non è l’attacco di un nemico ma il molto più doloroso tradimento di un amico.

Ma Gesù è la persona senza posa che non si arresta mai e definisce una cerchia ancora più piccola e più intima, una cerchia direi ai minimi termini, composta da Pietro, Giacomo e Giovanni. Se nel passaggio dalla cerchia più esterna a quelle più interne è progressivamente cresciuta la manifestazione di Gesù, ora egli pensa ad una manifestazione completa. E’ il vero volto del Figlio di Dio. Ma questa manifestazione non può avvenire nel mezzo della confusione del mondo e così Gesù conduce i suoi tre amici in disparte ed inizia a salire con loro un alto monte.

Chi ha esperienza di camminate in montagna sa che più si sale, più la vallata con tutte le sue preoccupazioni mondane diventa piccola allo sguardo e sempre più relativa. Più si sale, più cresce il silenzio che piano piano diventa interiore ed allora la vista diventa capace di cogliere l’infinito che palpita oltre la linea dell’orizzonte.

Ma la salita in montagna è anche fatica ad ogni passo, sudore, è vigilare per dosare le proprie forze.

Gesù sale verso la vetta e dietro di lui immagino camminare i tre apostoli e li vedo nella mia immaginazione seguire il passo solenne ma faticoso di Gesù, nel silenzio per risparmiare fiato.

Chissà se si saranno chiesti il perché di questo viaggio così insolito. Perché salire su un monte? Perché proprio su quel monte? Cosa ci sarà di così importante da fare in vetta?

Il perché credo lo sveli inconsapevolmente Pietro quando propone di fare tre tende. È la tentazione di ogni essere umano a costruirsi un paradiso in terra che drammaticamente nega la vita come percorso ed in un sol colpo anche la vita come mistero. Ogni anima sente forte il desiderio di un abbraccio, di una realtà emotiva che sia casa e credo che al fondo di questa esigenza ci sia che siamo fatti per la relazione con Dio, per un ritorno nel seno del Padre il cui abbraccio potrà finalmente colmare questa sete spirituale. Ma questa spinta insopprimibile a camminare la propria vita incontro a Dio può essere traviata da tante illusioni che inducono a fermare il cammino, a costruire case fondate sulla sabbia, perché tutto l’universo è in trasformazione, nessuna realtà umana rimane come è e la verità è che chi si ferma viene travolto.

Ed allora come fare a vedere la presenza e l’azione di Dio oltre il naturalmente visibile delle tante realtà umane? Io credo ci sia innanzitutto una rinuncia da operare verso ogni paradiso in terra che possiamo trovarci a desiderare. Chi cerca una casa stabile quaggiù abita a fondo valle e non ha motivo di salire sulla montagna.

Poi c’è un prezzo da pagare. Dobbiamo stringere la cinta attorno alle mollezze che frenano la salita. Bisogna assestare bene sulla spalla la propria croce perché non basta non fuggirla ma va anche compresa e portata con consapevolezza. Lungo la salita ci sarà da convivere con la fame e con la sete trovando forza in ogni parola che esce dalla bocca di Dio.

Ma credo ci sia anche forse una bella sorpresa. Nulla nei Vangeli lascia supporre che la cerchia più intima di Gesù sia un insieme chiuso. Io penso che Dio inviti tutti alla piena intimità con Lui come per Pietro, Giacomo e Giovanni.

Io che vi ho scritto queste riflessioni sono un ragazzo autistico non verbale e se sono arrivato a questo è perché nella mia parrocchia, dieci anni fa quando mi presentai, videro oltre il mio autismo, le mie stereotipie e l’inquietudine che generavo nei normali. Videro in me un fratello nella fede e tale spero di essere oggi e di fare il mio lavoro autistico per mettere anche io un mattone ad edificazione della Chiesa, un mattone piccolo ma pagato di persona.

Perché vi dico questo? Se volete vedere oltre il visibile io partirei nel cercare uno sguardo nuovo sugli esclusi che sempre Gesù ha integrato ad una vita anche sociale piena.

E se posso, vi raccomando i miei fratelli nell’autismo.

Pubblicato inLa Fede in Dio

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